Le nostre prigioni
di Damiano Praticò
- "Di respirare la stessa aria dei secondini non mi va, perciò ho deciso di rinunciare alla mia ora di libertà". Fabrizio De Andrè cantava questi versi in una delle sue più belle canzoni. I detenuti italiani darebbero il loro stesso cibo (miserrimo) per qualche ora in più di aria, piuttosto che sopravvivere in celle di otto metri insieme ad altre tre persone per circa ventuno ore al giorno. Quindi, "scaglierebbero" qualsiasi oggetto disponibile contro il detenuto De Andrè, un pazzo agorafobico.
E' notizia odierna il suicidio di un altro detenuto nelle nostre carceri. Sono passati due giorni dal precedente; il trentottesimo e il trentanovesimo dall'inizio dell'anno, quest'ultimo impiccatosi nel carcere di Siracusa dopo vari tentativi fallimentari. Da un'inchiesta di qualche mese fa del settimanale "L'Espresso", emerge una situazione notevolmente allarmante all'interno delle "nostre" prigioni (come stava Silvio Pellico?), spesso ignorata dai quotidiani nazionali orientati su questioni finanziarie, dispute internazionali, cronaca di omicidi, stupri, assassinii, che oscurano temi concreti e rilevanti come questo. I detenuti nelle carceri italiane sono attualmente circa 68 mila, il 30% stranieri. La capienza regolamentare degli istituti penitenziari è di 44 mila unità; la capienza massima raggiunge i 67 mila detenuti. Da questi dati è chiaro che la causa principale del disagio risiede nel sovraffollamento. La Calabria ha un esubero del 65% rispetto alla capienza massima, peggio stanno solamente Puglia, Emilia Romagna e Veneto. Tutto ciò comporta che in spazi riservati ad un individuo, sopravvivano tre o quattro persone in condizioni igieniche ed ambientali disumane. Di conseguenza, l'aumento dei tentativi di suicidio è inevitabile. Ma credere che la carenza di strutture sia la causa primaria del problema, è parzialmente errato. Certo, le strutture potrebbero offrire servizi migliori in condizioni normali, tuttavia è il sistema penitenziario in sé che non regge. E traballa per colpa di leggi, come la Bossi-Fini, che rendono possibile l'invio in carcere di fiumane di persone solamente "imputate" di reato. Infatti, metà dei detenuti, tuttora, è in attesa di giudizio (circa 30 mila). Si tratta perlopiù, soprattutto al Nord, di clandestini pescati senza permesso di soggiorno, sbattuti in cella e poi subito rilasciati, ma che intanto ingorgano un sistema già al collasso a causa di pesanti deficit nel personale. Agli immigrati si affiancano i piccoli "pesci" di strada, spacciatori o semplici ricercatori di dosi di droga i quali soggiornano periodicamente nelle carceri contribuendo all'ingolfamento. Il vero male è la mancanza di personale penitenziario: a fronte dei 41 mila poliziotti che servirebbero nelle nostre galere, oggi ne sono presenti solamente 35 mila, per non parlare delle mancanze nel personale amministrativo o di educatori. Nei primi mesi dell'anno, il ministro della Giustizia Alfano ha presentato un piano per la costruzione di nuovi istituti penitenziari per i prossimi anni al fine di disporre di spazi sufficienti per circa altri 20 mila detenuti. Ma il vero problema non sono le prigioni che mancano, sono i carcerati che sono troppi. E tale piano di costruzione non sarebbe altro che un colossale business. Intanto la situazione rischia di innescare pericolose rivolte in contesti in cui la parola "cella" diventa sinonimo di "forno crematorio" a cause delle alte temperature estive e degli spazi angusti. Condizioni denunciate come "tortura di Stato" da parte di Adriano Sofri, il quale non ha mancato di denunciare questa terribile piaga. Le prigioni si agitano, i poliziotti sono pochi, qualcuno (molti) si toglie la vita. E pensare che Faber voleva stare in cella…
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