Ápeiron è ciò che il filosofo greco Anassimandro concepisce quale ente illimitato, posto a principio dell'universo: mescolanza originaria, eterna e infinita di tutte le cose. Da ciò, secondo lui, si generano gli elementi, per progressiva separazione e opposizione dei contrari; in una cosmologia che rivela il proprio senso nel distacco dall'indefinito donato all'umanità attraverso il peso del conflitto, della lotta tra gli esseri come entità determinate, le quali tornano, per scomparsa, all'indistinto del Tutto da cui saranno di nuovo forgiate. Ápeiron significa, dunque, quantità smisurata della materia dalla quale ogni cosa discende e nella quale ogni cosa si dissolve (al termine di un ciclo stabilito per legge necessaria); e tale principio è governante immortale, indistruttibile, forse divino.
Il concetto di Ápeiron secondo Fabio Migliorati risponde agli interrogativi suscitati dall'intervento artistico di Valentina De' Mathà, perché assorbe in maniera compiuta la definizione di una realtà incompiuta, come è quella cui l'artista allude. «Il carattere indeterminato della sostanza primordiale afferma il critico aretino riguarda la trasposizione nella forma, che qui diventa stile significante senza identificarsi con la sensualità di alcun elemento corporeo, pur trattato, peraltro seducente, manifesto. Consente, invece, di fiutare detti elementi con uno slancio alla dimensione più lontana, più interiore di essa, giacendo ai bordi d'ogni riferimento al contenuto della corporeità: a lasciare eredità formalistiche, gusci vuoti di peso carnale, macchie o sagome spurie». La massa di materia colorata risulta quindi apparentemente corporea, quantitativa ed estesa secondo unità di misura metafisiche, riconducibili a ordini di senso antroposofici. Le serie embrioni e white sculpture, in installazione, sono visibili ad Arezzo per mostrare lo spirito di un agire profondo, che si stempera nell'indagine del confine tra materia formale e informale, attraverso una tecnica alchemica, lacerante e sfibrante, capace di rendere misterioso il rapporto artista/opera.
Valentina De' Mathà, con il suo lavoro, tende inevitabilmente alla trascendenza. Quel che la funzione del corpo cinge è sempre lontano, esterno, fuori: di là da ciò che viene cinto. Oltre la mitologia, qui si sfiora l'iconologia mistica a partire dalla materia; come per configurazione fisica che, però, s'incontra con una specie di religione, perché ogni cosa che contempli il non-finire si espone all'imminenza della soluzione divina. La dimensione è ancora naturalistica ma disposta dalle leggi del cosmo, dell'universale intrinseco; tutto è deriva di una certa inquietudine: moto primo ed eterno, unico, che è stadio dinamico di corpi evanescenti, capaci di sbiadire fino alla trasparenza nel sogno suggestivo di un'appartenenza universa. Si sforzano, quei corpi, di risolvere ciò che sono, nella prossimità di una materia che è già altro. L'arte di De' Mathà si fonda sull'unità del contenuto primigenio, ma anche su quella legge che emana dall'iconografia anelante a definirlo, nella tensione pragmatica di un linguaggio funzionale perché archeosofico, organico fino al simbolo di una cosmogonia. Si tratta, infondo, di un'inclinazione astratta dell'empiria, in cui una sorta di gnosi panica (fatta di materia che rappresenta la verità) concerne spesso un corpo quale eterea via per il resto, disciolto nel nulla che lo circonda, sempre leggero come il pensiero a fendere ogni limite, per predisposta variazione di un'essenza instabile. Metamorfosi: in un divenire di gestualità piana, né fredda né calda; neutra come la biologia, sempre immatura, senza eccessi emozionali o iperboli drammatiche...
[da F. Migliorati (a cura di), Ápeiron, Edizioni NAG Contemporary, 2009].