FRANCESCO REDA è IPPOLITO in Fedra di Seneca, con DENNY MENDEZ, Regia: Natale Filice
A risalire la stretta più arcaica del mito si fa presto a smarrirsi. Perdipiù la visione diacronica dell'uomo contemporaneo,
la sua idea di sviluppo, di scienza, di progresso, di 'evoluzione' ci induce a considerare a priori il Mito come sintagma
immaginale, articolato in componenti e elementi concatenati esclusivamente dalle leggi della causalità e della
propedeuticità. Eppure, una visione antinomica, rispetto all'attuale setting generalistico e paternalistico della cultura
dominante, è ancora possibile. Il problema fondamentale, comunque, resta il prosciugamento semantico e i
restringimenti interpretativi che fanno terra bruciata attorno ai segni e ai simboli, al fine di ricondurli a significati noti e
certi, già acquisiti, non pericolosi. E così, di quadro in quadro, di opera in opera, di teatro in teatro, la questione si
allarga, cristallizzandosi in varie forme e costituendo una sorta di grande museo immaginale ed emozionale. Secondo
questa via, il Mito ha insegnato e insegna all'uomo a pensare, a distinguere e a concepire idee complesse: come in un
gioco di specchi multidimensionali che riproducono, deformandola, l'immagine originale, che si confonde nel bagliore
della trama riflettente.
E allora perché Seneca? Forse perché gli aspetti pedagogici del suo stoicismo debbano o possano insegnare o reinsegnare
all'uomo contemporaneo i valori fondamentali della vita? No, grazie! Forse perché una Fedra scritta 'solo per
essere letta' può essere una sfida stimolante per giovani teatranti ansiosi di sperimentare? No, grazie! Ciò che mi
interessa, invece, è l'aspetto più squisitamente teoretico della tragedia senechiana – in altre parole, non il 'messaggio',
ma la cruciale ricreazione del tempo. Il Tempo, appunto, è il riferimento principale di questa lettura, in quanto capace di
regolare, sregolare, organizzare e disordinare eventi e dimensioni. L'idea non banale del Tempo, quindi, letto come
organismo trans-teatrale e performante, lambisce, urta, permea e scolpisce gli apparati e le architetture previsti in questo
allestimento. La scena: col suo corpo frontale, bidimensionale e pubblico, e quello prospettico, tridimensionale e
privato, che guida, paradossalmente, lo sguardo lungo la direzione della spada di Aiace; la musica: con le sue
dinamiche apparentemente monodiche, che ridistribuisce nel tempo e nello spazio i cristalli impazziti della rottura del
Mito.
Così la Fedra di Seneca diventa Opera contemporanea (tra lirica e prosa), come ingrandimento di quella stessa rottura
della linearità del mito, che oggi ancora possiamo chiamare tragedia.
Ufficio stampa Francesco Reda
Davide Giglio
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