martedì 8 aprile 2014

Il professore che apostrofa l’alunno o la “collega” con il termine “ignorante”, commette reato di ingiuria, e non una semplice “critica professionale” !

Da: avv. Eugenio Gargiulo (eucariota@tiscali.it)

 

Il professore che apostrofa  l'alunno o la "collega"  con il termine "ignorante", commette reato di ingiuria,  e non una semplice "critica professionale" !

 

Provengono dalla Suprema Corte di Cassazione due recenti sentenze riguardanti il mondo scolastico ed aventi come denominatore comune , la fattispecie del reato di ingiuria, perpetrato da un insegnante ai danni di un suo alunno o nei confronti di una sua "collega" di lavoro.

 

Il professore che dà dell'ignorante e presuntuoso all'alunno deve rispondere, poi, del reato di ingiuria. A dirlo è una recente sentenza della Cassazione.

 

La vicenda: Un alunno, rappresentante di classe, si era limitato a criticare, correttamente e pacatamente, la condotta dell'insegnante, contestandole una mancanza di trasparenza nelle valutazioni sui voti. In particolare, il docente non aveva comunicato a un alunno, con tempestività, l'esito di una interrogazione orale. Dinanzi alle critiche mossegli, il prof., aveva risposto al giovane: "sei presuntuoso e ignorante".

 

La Suprema Corte ricorda implicitamente che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, senza distinzioni neanche tra insegnanti e alunni. Così, i docenti non possono appellarsi ad un mal interpretato ruolo di "guide" per giustificare offese gratuite ed essere, così, di cattivo esempio nei confronti della classe.


Il diritto di critica, che potrebbe, tutt'al più, essere usato per commentare il risultato di una interrogazione o di un compito, non può essere invece richiamato per giustificare una affermazione ingiuriosa ("sei presuntuoso"), decontestualizzata dal rendimento scolastico.


Insomma, quel che i giudici vogliono dire è che ogni volta che, nelle intenzioni del prof., gli aggettivi "ignorante" e "presuntuoso" vengono usati proprio con lo scopo di aggredire, offendere e mettere a tacere i giovani, trincerandosi nel proprio "potere" di fatto, scatta il reato di ingiuria.


Nel caso di specie, non è valsa ad evitare la condanna neanche l'esimente della provocazione posto che il giovane, secondo le testimonianze, si era limitato, in qualità di rappresentante di classe a "criticare – correttamente e pacatamente – la condotta dell'insegnante". ] ( in tal senso Cass. sent. n. 23693/10)

 

Nella seconda fattispecie sottoposta al vaglio degli Ermellini , esemplare è stata la condanna comminata nei confronti di un docente che ha apostrofato in malo modo una collega di lavoro durante un consiglio di classe.

 

A scatenare la bagarre sono alcune frasi, per nulla gentili, pronunciate da un docente nei confronti di una collega durante un consiglio di classe. Gli epiteti utilizzati non paiono clamorosamente offensivi, ma sono sicuramente lontani dal concetto di complimento: nell'ordine, "imbecille, ignorante, cretina, tonta". Basta, e avanza, secondo i giudici, per una condanna, nei confronti dell'uomo, per il reato di ingiuria: questa la linea seguita non solo dal Giudice di pace ma anche dal Tribunale. Lapalissiana l'offesa nei confronti della donna.

 

Ma l'uomo ritiene comunque necessario proseguire la battaglia giudiziaria, proponendo ricorso per cassazione e chiedendo una 'rivalutazione' più lieve delle parole utilizzate nei confronti della collega. Più precisamente, il docente sostiene che egli «stava esponendo una strategia rieducativa motoria» che la collega mostrava di non condividere «con argomentazioni incongrue»: di conseguenza, il termine "ignorante" era da intendere come «difetto di competenze e conoscenze nel campo delle strategie didattiche, che un docente ha il dovere giuridico, istituzionale e deontologico di possedere».

 

Secondo l'uomo, quindi, più che di offesa si poteva parlare di "critica professionale". Ma questa visione viene ritenuta assolutamente non legittima dai giudici di Cassazione, i quali, invece, ritengono prevalente il contesto di «sprezzante aggressività» creato dall'uomo, e caratterizzato non solo dagli epiteti 'incriminati' ma addirittura anche da «critiche all'aspetto fisico della donna». Ciò emerge dalla chiara ricostruzione dell'episodio, che consente di evidenziare che l'uomo «non si è limitato a una improvvida e smodata lezione di strategia didattica nei confronti della collega, che gli appariva inadempiente al dovere giuridico, istituzionale, deontologico di conoscenza della materia, ma si è spinto in assolutamente ingiustificabili aggressioni, dai connotati brutali e mortificanti, sulle complessive qualità intellettive e conoscitive della donna», così venendo meno al doveroso «rispetto delle «elementari regole di civile convivenza». (in tal senso Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza n. 9318/13; depositata il 27 febbraio)

Foggia, 8 aprile 2014                                      Avv. Eugenio Gargiulo


 

 

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