venerdì 16 aprile 2010

Droga. Il fallimentare sistema di allerta precoce e l'illusione del regime proibizionista

Qui il comunicato online:
http://blog.donatellaporetti.it/?p=1336
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Droga. Il fallimentare sistema di allerta precoce e l'illusione del regime proibizionista

Intervento della sen. Donatella Poretti, Radicali/Pd, segretaria commissione Igiene e Sanita'

Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Carlo Giovanardi, ha risposto ieri ad una interpellanza parlamentare sul sistema di allerta precoce del Dipartimento per le politiche antidroga della Presidenza del Consiglio dei ministri, e piu' in generale sul regime proibizionista in materia di droghe (1). Interpellanza che avevo depositato con il senatore Marco Perduca su segnalazione di Giulio Manfredi, Comitato nazionale Radicali Italiani e dell'associazione radicale torinese Adelaide Aglietta.
Nella risposta Giovanardi ha confermato il fallimentare sistema di allerta per evidenti mancanze di coordinamento con le strutture locali e regionali. Esattamente cio' che segnalavamo nell'interpellanza, ossia che il sistema di allerta precoce si era attivato a Torino nell'estate del 2009, dopo ben due mesi che tossicodipendenti morivano per strada per colpa di uno stupefacente oppioide particolare, denominato «6-Mam», di provenienza afgana. Piu' in generale il sottosegretario Giovanardi ha confermato l'approccio ideologico, negato a parole, parlando sempre della prevenzione e della cura, tendendo quasi sempre a sostituire o a sovrapporre questi termini ad un altro, quello della riduzione del danno, aggiungendo che programmi di somministrazione di eroina, a prescindere dai risultati, non possono rientrare nei piani del Governo perche' "la cronicizzazione è una condizione eticamente inaccettabile".
Eticamente inaccettabile forse per un Governo dovrebbe essere che i ragazzi ancora muoiano per strada. A Torino in 27 sono morti la scorsa estate per un oppioide immesso sul mercato dal narcotraffico!

(1) http://blog.donatellaporetti.it/?p=1163

Sen. Donatella Poretti - Parlamentare Radicali -Partito Democratico
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Di seguito l'illustrazione dell'interpellanza, la risposta del Governo e la replica dell'interrogante.

http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=Resaula&leg=16&id=00473743&part=doc_dc-ressten_rs-gentit_200152cdrp&parse=no


Legislatura 16º - Aula - Resoconto stenografico della seduta n. 361 del 15/04/2010


PRESIDENTE. Segue l'interpellanza 2-00152 sulle conseguenze del regime proibizionista.

Ha facoltà di parlare la senatrice Poretti per illustrare tale interpellanza.


PORETTI (PD). Signora Presidente, questa interpellanza, in realtà, non è così vecchia come quella del collega che mi ha preceduto, risalendo infatti al 20 gennaio scorso. Il problema caso mai è un altro, e cioè che i fatti ai quali essa fa riferimento risalgono invece quasi ad un anno fa: si parla dell'estate 2009 e di un sistema nazionale di allerta precoce, che in realtà ha visto trascorrere diversi mesi. È un po' questa la problematica affrontata.

Infatti, quando abbiamo presentato questa interrogazione, veniva pubblicato sulla sezione di cronaca di Torino del quotidiano «La Stampa» del 12 gennaio 2010 un articolo di Massimo Numa dal titolo «Una molecola killer ha ucciso 27 eroinomani - La scoperta dopo gli esami della Scientifica». In questo articolo si riportava la notizia che i laboratori della Polizia scientifica avevano individuato uno stupefacente oppioide particolare, denominato «6-Mam», di provenienza afgana, che avrebbe provocato la morte di questi 27 cittadini tossicodipendenti, in Provincia di Torino, nell'estate del 2009.

L'articolo riportava anche le dichiarazioni del professor Giovanni Serpelloni, direttore del Dipartimento per le politiche antidroga della Presidenza del Consiglio dei ministri, che cito: «Alcuni cadaveri sono stati trovati con ancora le siringhe conficcate nelle braccia. Una morte fulminea. Il tempo di assimilazione della molecola è di pochi secondi, molto più veloce dell'eroina (...). Allora, non fu perso un solo istante. Decidemmo di istituire il livello di massima allerta 24 ore dopo avere ricevuto, dagli organismi locali, i dati sul numero e sulle circostanze dei decessi. Ma il caso Torino è stato unico in Italia, in quel periodo, e ci ha consentito di studiare a fondo ogni dettaglio di questa vera e propria strage».

Rispetto al perché era stato immesso sul mercato criminale uno stupefacente così letale, Serpelloni dichiarava: «Impossibile ricostruire questo tipo di scenari, noi possiamo solo accertare il tipo di sostanza utilizzata, le caratteristiche chimiche, le aree di provenienza. E cercare di evitare, in futuro, con la prevenzione, una catena di morti di queste dimensioni spaventose».

Il decreto del 23 gennaio 2009 del Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio con delega alle politiche per la famiglia, al contrasto alle tossicodipendenze e al servizio civile e, in particolare, l'articolo 2, comma 6, così recita: «Il Dipartimento, mediante sistemi di allerta precoce e il coordinamento delle altre amministrazioni centrali coinvolte, provvede alla sorveglianza epidemiologica, delle caratteristiche delle sostanze stupefacenti circolanti, dei comportamenti di abuso e dei fenomeni droga correlati, per l'evidenziazione precoce dei rischi e delle possibili conseguenze rilevanti per la salute della popolazione».

Tutto questo è contenuto nella premessa della nostra interpellanza, alla quale seguono le domande al Governo cui immaginiamo che il sottosegretario Giovanardi oggi risponderà.

Nel momento in cui noi abbiamo reso nota l'interpellanza, pubblicata, ad esempio, sul Notiziario droghe dell'Associazione per i diritti degli utenti e consumatori (ADUC), il professor Serpelloni, proprio in quella sede, ci ha fornito alcuna prime risposte, biasimando il fatto che avessimo criticato questo sistema di allerta precoce. Egli ci ha dato ulteriori informazioni, spiegando: «La segnalazione di un numero particolarmente elevato di overdose infauste nell'area torinese da parte di un'associazione di volontariato operante nella Regione Piemonte è giunta per la prima volta al Sistema nazionale di allerta» - e già l'aggettivo «precoce» è scomparso - «dopo che già 15 decessi erano avvenuti, con un ritardo di oltre due mesi». Quel tempo di 24 ore citato nell'articolo de "La Stampa", a questo punto è sì di 24 ore, ma dopo che sono passati 2 mesi: si tratta quindi di qualche ora in più, tanto che la parola precoce è scomparsa dall'articolo di Serpelloni; sarebbe
stato
paradoss
ale utilizzare il termine precoce quando l'attivazione è avvenuta dopo 2 mesi e 24 ore.

L'articolo prosegue dicendo che «Il Sistema, lavorando anche di notte, ha attivato e completato una complessa indagine di campo per poter avere una risposta interpretativa del fenomeno che fosse esauriente al fine di lanciare un'allerta soprattutto diretta ai consumatori». Dopo due mesi, un'allerta immediata è davvero difficile. «Come è stato successivamente evidenziato dai dati raccolti, dopo aver lanciato l'allerta il numero delle overdose è drasticamente crollato». Ormai erano già praticamente morti tutti, perché l'evento risaliva a due mesi prima. «Quindi è stato proprio grazie all'allerta che i consumatori sono stati avvisati del grave pericolo evitando ulteriori morti. Dopo l'attivazione dell'allerta la collaborazione con le strutture regionali, la magistratura, le forze dell'ordine e le strutture sanitarie coinvolte è stata particolarmente efficace e ben organizzata. Il ritardo nell'attivazione dell'allerta non può essere imputato al Sistema nazionale ma,
in
caso, ad u
na scarsa sensibilità informativa dei sistemi e degli osservatori locali, oltre che ad una oggettiva difficoltà da parte delle unità di primo rilevamento di percepire il fenomeno nelle sue fasi iniziali. Ciò, eventualmente, denota la necessità di attivare forme di collaborazione sempre più intense tra strutture locali (che dovrebbero essere in grado di percepire più precocemente i primi segni ed eventi negativi trasformandoli in vere e proprie segnalazioni) e il Sistema nazionale, che è in grado d'intervenire a più ampio raggio e molto più tempestivamente, attivando allerte che possono interessare altre Regioni quando non addirittura l'intero territorio nazionale».

Serpelloni prosegue: «La domanda da porsi, al fine di migliorare i sistemi, dovrebbe essere quindi quella del perché non hanno funzionato i sistemi locali e perché il Sistema di allerta nazionale non sia stato avvisato più precocemente, considerate la capacità, la tempestività e gli accessi che il Sistema possiede e che avrebbero potuto determinare un'azione più immediata da parte di tutti gli enti e le strutture locali coinvolte».

Non credo sia opportuno in questa situazione fare lo scaricabarile, a ciascuno il suo e, in particolar modo, al Governo il compito di far funzionare ciò che gli compete, quindi il Sistema di allerta nazionale, ovviamente attivando forme di collaborazione con le strutture locali che dovranno essere allertate. Altrimenti non si comprende l'utilità di un Sistema di allerta nazionale precoce che comunque non riceve i dati precocemente. Se si parte dal presupposto che a livello locale non funziona il collegamento con il Sistema di allerta nazionale e che questo viene allertato dopo due mesi, è difficile pensare di riuscire ad attivare il Sistema in ventiquattr'ore. Se si attiva dopo due mesi, il problema è comunque domandarsi perché gli arrivano i segni con tanto ritardo. Le domande restano ovviamente aperte. Ascolteremo le risposte del sottosegretario Giovanardi.

Con l'interpellanza in questione chiediamo di sapere quale sia la finalità del «Sistema di allerta precoce», la cui istituzione e gestione rientra tra i compiti del Dipartimento per le politiche antidroga della Presidenza del Consiglio, tenendo conto che tale istituto non è riuscito ad evitare nemmeno una delle 27 morti per overdose citate in premessa, tenendo conto che solamente una piccola parte dell'opinione pubblica (quindi i lettori dell'articolo de «La Stampa» citato in premessa) è venuta a conoscenza dei risultati dei laboratori della Polizia scientifica non durante l'escalation delle morti - quindi nell'estate del 2009 - bensì alcuni mesi dopo le overdose mortali. Tutto ciò fa anche immaginare che la sostanza che ha provocato tali morti sia stata eliminata dal mercato della criminalità, quindi dal mercato nero, che, come tutti i mercati, tende a far sopravvivere i propri consumatori e non certo ad ucciderli perché non ci sarebbero più gli acquirenti dei pr
odotti;
inol
tre, ci sarà stato anche un passa parola tra i consumatori, che oltre ad essere tali, sono persone che preferiscono continuare a vivere, pur con tutte le difficoltà che ciascuno di noi, del resto, incontra nel vivere la propria vita.

Le ulteriori domande dell'interpellanza riguardano il merito più generale. Si chiede di sapere se il Governo non ritenga che un sistema di somministrazione controllata di eroina - sull'esempio di quello esistente anche in altri Paesi, ad esempio in Svizzera, per la sua vicinanza a Torino - avrebbe evitato alcune di quelle overdose mortali, se non tutte, e se non reputi che la presenza di una o più narcosale nella città di Torino - sull'esempio di quelle operanti da un ventennio in varie città europee - avrebbe evitato alcune di quelle overdose. Del resto, la riduzione del danno è uno dei quattro pilastri delle politiche europee di contrasto alla tossicodipendenza. Chiediamo inoltre al Governo se non pensi che l'utilizzo dell'oppio afgano per produrre morfina - come proposto prima dai radicali poi dal Parlamento europeo - avrebbe impedito la trasformazione di quell'oppio in eroina e, nel caso specifico in «6-Mam», il conseguente smercio sulla piazza criminale torinese e
la con
seguente morte di 27 persone, e se, alla luce delle considerazioni esposte, non ritenga che il regime proibizionista esistente su alcune droghe sia il vero responsabile dei 27 decessi per overdose a Torino nell'estate del 2009 e non lo stupefacente «6-Mam».

In definitiva, la domanda è di più ampio spettro e forse sarebbe utile che invece di una semplice risposta ad una semplice interpellanza l'Aula si proponesse di avviare un dibattito approfondito sul fatto che il regime proibizionista sia esso stesso un crimine cui andrebbero imputate queste morti.


PRESIDENTE. Il rappresentante del Governo ha facoltà di rispondere all'interpellanza testé svolta.


GIOVANARDI, sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Signora Presidente, devo premettere che sono un po' imbarazzato perché, in realtà, le critiche mosse dall'interpellante vanno rivolte non tanto al Governo nazionale, quanto alla Regione Piemonte. Come noto, infatti, dal 2001 in avanti il nostro sistema costituzionale è tale che le Regioni hanno le loro competenze, spesso esclusive, per determinate materie, mentre sono rimaste al Governo nazionale solo le competenze residue di coordinamento e programmazione.

Ricordo solo un dato, perché mi compete: l'intero Dipartimento, a livello nazionale, ha 9 milioni di euro per tutte le attività che deve svolgere, mentre giorni fa ho seguito con interesse la presentazione del programma della Regione Piemonte, che stanzia 60 milioni di euro per le tossicodipendenze. E non è che il Piemonte sia un'eccezione: è che l'intero fondo che una volta era in capo allo Stato è stato trasferito alle Regioni, insieme alle competenze che, per esempio, riguardano l'organizzazione dei servizi (SERT), che non sono più dello Stato, ma delle Regioni.

È quindi con un certo imbarazzo che devo dire che, nel caso specifico, per quanto riguarda il nostro Sistema di allerta precoce e risposta rapida per le droghe la prima ed unica informazione pervenuta dal Piemonte è giunta il 13 luglio 2009. Dopodiché, purtroppo, abbiamo saputo che l'Osservatorio epidemiologico dipendenze della Regione Piemonte era già al corrente del verificarsi degli eventi, ma non aveva fatto pervenire alcuna segnalazione al livello nazionale. Ebbene, nessuno ha la scienza infusa: se sul territorio chi ha la competenza non segnala e la segnalazione poi arriva da altre parti, nessuno può essere in grado di sapere quello che accade in Sicilia o in Calabria, piuttosto che in Piemonte.

Tuttavia, non appena è arrivata questa unica segnalazione da parte di un'associazione di volontariato piemontese, in ventiquattr'ore l'allerta è partito e, in base a tale segnalazione, si è subito scoperto che la mortalità dei casi segnalati era dovuta all'assunzione di un particolare tipo di eroina, denominata Black Tar a causa del suo particolare colore, che era disponibile sulle piazze di spaccio dell'area piemontese, e che in tale sostanza era presente un'elevata percentuale di una molecola monoacetilmorfina, causa dei decessi. Confermata la pericolosità, alle ore 12,36 del 14 luglio, il Sistema attivava il massimo grado di allerta e non solo in Piemonte, ma avvertendo tutte le Regioni italiane, i laboratori, le forze dell'ordine e anche le strutture europee dell'emergenza dovuta ad una sostanza che poteva essere presente anche in altre Regioni o Paesi.

Il 15 settembre 2009, dopo 40 giorni dalla registrazione dell'ultimo caso, come da protocollo standard, e soprattutto in considerazione del fatto che non veniva riscontrata un'ulteriore presenza sul mercato clandestino della sostanza, il Dipartimento antidroga, sempre attraverso il Sistema nazionale di allerta precoce, inviava una nuova informativa in cui si comunicava la chiusura dell'allerta.

A conclusione delle procedure di analisi della dinamica dei decessi, i tecnici del Dipartimento antidroga, in sede di consuntivo delle operazioni, hanno potuto rilevare carenze nell'attività di segnalazione dei decessi da parte delle unità operative locali. Al riguardo, quando si parla di collaborazione, è evidente che un sistema funziona se i terminali locali, quando succede qualcosa, comunicano tempestivamente quello che sta accadendo. Inoltre, visto che siamo in un sistema ormai federale regionale e vi sono 20 Regioni con le quali fare i conti, ogni Regione ha proprie procedure e modalità di approccio al fenomeno della droga.

La segnalazione è arrivata in ritardo, ma è anche vero che dopo l'allerta il fenomeno è rapidamente scemato e non perché, senatrice Poretti, non vi fossero più tossicodipendenti o consumatori di quella sostanza (magari fosse stato così), ma perché il sistema di allerta ha permesso di attivarsi per impedire nuovi decessi.

Sicuramente, e questo è un problema di cui abbiamo lungamente parlato a Trieste, durante la Conferenza nazionale sulle tossicodipendenze, è assolutamente necessaria una più stretta collaborazione tra Stato e Regioni, sia dal punto di vista di questi strumenti, sia dal punto di vista dei SERT, delle comunità di recupero. Non è un mistero, infatti, che in Italia alcune Regioni stanziano più fondi per il recupero dei tossicodipendenti, rispetto ad altre che stanziano pochissimo. D'altronde, è totalmente discrezionale da parte delle Regioni utilizzare o non utilizzare una parte del Fondo sanitario in direzione del recupero dei tossicodipendenti.

È altrettanto vero che la Costituzione attuale impedisce al Governo di intervenire, se non attraverso un'intesa - che riproporremo - con le Regioni, affinché l'1-1,2 per cento dei trasferimenti per la sanità verso le Regioni sia destinato, come accadeva una volta con il fondo nazionale, al campo della prevenzione e del recupero dei tossicodipendenti.

Ricordo anche - recentemente ne ha parlato qualche trasmissione televisiva piuttosto diffusa e seguita - che proprio il nostro sistema ha permesso di monitorare quattro o cinque casi di ricovero ospedalieri, causati dal consumo delle cosiddette droghe furbe, le smart drug, che allettano i giovani ad avvicinarsi agli stupefacenti. Ricordo che, a parte la cocaina e l'eroina, basta prendere una pastiglia diecstasy, qualche volta, per rimetterci la vita, e purtroppo questo succede spesso a ragazzi giovanissimi, che muoiono per l'assunzione disinvolta di tali sostanze. Proprio attraverso il monitoraggio di quei ricoveri ospedalieri, siamo stati in grado, in tempo reale, da un lato, di chiedere l'inserimento in tabella di queste sostanze, che contengono cannabinoidi, per cui devono essere monitorate e se ne deve rendere penalmente perseguibile lo spaccio, dall'altro, di ottenere un'ordinanza da parte del Ministro della sanità di sequestro in tutto il territorio nazionale di queste

sostanze, per gli effetti nocivi che hanno sulla salute.

In ordine invece alla possibilità che il Governo affidi ad un «sistema di assunzione controllata di eroina», ovvero all'installazione di «una o più narcosale» il compito di evitare overdosi mortali come quelle che hanno riguardato persone tossicodipendenti nella città di Torino, la posizione del Governo italiano è molto diversa, soprattutto per quanto riguarda gli «interventi di prevenzione delle patologie correlate». Sottolineo che la posizione italiana ha trovato consensi a livello planetario. A Vienna, questa posizione è stata sposata sostanzialmente da tutti gli Stati del mondo, salvo due o tre in Europa, dagli Stati Uniti alla Cina, dal Giappone all'Afghanistan, dall'Australia al Canada. Tale posizione è patrimonio diffuso, tant'è vero che il documento finale è stato approvato sostanzialmente all'unanimità.

Quindi, noi riconosciamo talune misure di prevenzione secondaria delle patologie correlate alla tossicodipendenza (l'epatite, le morti di droga correlate, l'infezione da HIV). Tali interventi però devono essere in maniera indispensabile e irrinunciabile mirati, da un lato, a prevenire e ridurre i rischi e i danni per la salute delle persone tossicodipendenti, derivanti da comportamenti caratteristici delle tossicodipendenze, e dall'altro a ridurre le condizioni sociali devianti di discriminazione e stigmatizzazione o il rischio di criminalità, atteso che la finalità essenziale di ogni iniziativa è un intervento globale sulla persona, che preveda il completo recupero e non la sua cronicizzazione in condizioni eticamente inaccettabili.

In altri termini, tali azioni di prevenzione delle patologie correlate devono essere sempre considerate integrative e non sostitutive dell'intervento terapeutico e riabilitativo e tese a recuperare totalmente la persona, affrancarla dall'uso di qualsiasi sostanza stupefacente e reinserirla nella società e nel mondo del lavoro. Abbiamo un progetto mirato proprio a questa fase molto delicata, che è quella dell'uscita dalle comunità o dal SERT: chi esce dal tunnel della droga, naturalmente, ha bisogno di essere reinserito, trovando un lavoro e condizioni di vita normali.

La distribuzione controllata di eroina si tradurrebbe nella consegna e assunzione di un prodotto farmaceutico del tutto simile alla sostanza stupefacente presso strutture dedicate a cui il tossicodipendente avrebbe accesso tre o quattro volte al giorno per praticarsi l'iniezione endovenosa.

Il Dipartimento antidroga rileva, oltre alle problematiche di carattere giuridico, che non può essere considerata una priorità, attesa la bassissima percentuale di soggetti che ne potrebbero usufruire (non superiore al 3 per cento della popolazione tossicodipendente).

Tra l'altro, le esperienze di altri Paesi (e anche di questo si è discusso a lungo a Trieste e a Vienna), in cui la prescrizione di eroina è stata adottata, hanno mostrato che gli stessi pazienti tendono, nell'arco di quattro-sei mesi, ad abbandonare questo tipo di soluzione. Non va, da ultimo, sottovalutato l'alto costo del dispositivo sanitario necessario a supportare quest'iniziativa, con possibili ripercussioni sullo svolgimento a favore degli stessi tossicodipendenti di attività sanitarie di ben altra efficacia.

Richiamo in proposito anche i progressi nel campo delle neuroscienze rispetto all'evidenza ormai incontestabile dei danni cerebrali che il consumo di droga comporta e dunque il problema di carattere medico di somministrare ai malati sostanze che invece di farli uscire dalla malattia gliela cronicizzano e gliela peggiorano.

In ordine all'istituzione delle cosiddette narcosale, faccio presente che tale iniziativa non è supportata in Italia da alcuna previsione normativa che ne consenta l'attivazione. Tale azione, oltre che impercorribile sotto il profilo giuridico, è totalmente in contrasto con le politiche per contenere il fenomeno della tossicodipendenza adottate dal Governo sulla base delle quali si considera prioritario privilegiare l'impiego delle risorse in direzioni diverse, con l'individuazione di attività di primo contatto mediante unità mobili, drop-in center, centri di pronta accoglienza e offerta di terapie farmacologiche a bassa soglia. Più in particolare, è auspicata (e in molte Regioni è già stata intrapresa) l'attivazione di accoglienze immediate e l'utilizzo di terapie farmacologiche come forma di incentivazione al contatto e al proseguimento di percorsi terapeutici e di affrancamento dall'uso di sostanze stupefacenti a più alta soglia e nel più lungo termine.

Come ricordavo prima, questa impostazione "italiana" - che non è ideologica, è molto pragmatica - trova importanti sostenitori anche in ambito internazionale. Non a caso, nel suo rapporto 2009, presentato nel marzo scorso, a Vienna, nel corso dei lavori della 53a Sessione della CND, l'International Narcotics Control Board (INBC) delle Nazioni Unite, con la formale raccomandazione n. 32, ha richiamato i Governi che hanno allestito le cosiddette "camere per l'iniezione di droghe" a "chiudere queste facilitazioni e soluzioni similari e a promuovere l'accesso dei consumatori di droga ai servizi sanitari e sociali, compresi i servizi per il trattamento dell'abuso di droga, in conformità con le disposizioni dei trattati internazionali di controllo sulla droga".

Attualmente, la maggior parte dei sistemi regionali sono in grado - se ben orientati - di creare efficaci condizioni di primo contatto e incentivazione all'entrata in trattamento (obiettivo primario), mentre l'apertura di tali "camere del buco" potrebbe comportare lo spostamento dell'attenzione e degli impieghi di risorse verso soluzioni meno impegnative che, invece di essere aggiuntive, potrebbero correre un forte rischio di diventare sostitutive, creando così sacche di pazienti solo controllati ma non gestiti correttamente da un punto di vista terapeutico e, soprattutto, riabilitativo.

Anche in questo caso le contrapposizioni ideologiche del passato sono state ampiamente superate quando una dizione equivoca come "riduzione del danno" è stata tradotta sia a livello di riduzione del rischio che di accettazione di tutte quelle terapie che possono essere adottate da alcune comunità che non fanno uso di metadone e quindi sono assolutamente contrarie a terapie farmacologiche, da altre che fanno uso del metadone, da unità di strada che tentano di agganciare il tossicodipendente attraverso il suo avvicinamento ai servizi.

In sostanza, il colore del gatto ha poca importanza se acchiappa il topo, ma quest'ultimo - su questo siamo fermissimi - non è dato dalla cronicizzazione ma dalla possibilità di recupero integrale della persona tossicodipendente. Quindi, tutti gli strumenti sono validi se finalizzati a quell'obiettivo.

Per quel che riguarda la possibilità di produrre morfina con l'oppio afgano, informazioni assunte presso l'Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine confermano l'impercorribilità di tale soluzione per una serie di insuperabili motivi tecnici e strategici.

In primo luogo, l'oppio per uso medico è già prodotto, in grandi quantità e sotto stretto controllo delle autorità locali ed internazionali, in diversi Paesi (come, ad esempio, in India). Rispetto alla domanda globale di medicinali antidolorifici, esiste attualmente un'enorme eccedenza di produzione, ben superiore alle quantità di oppio che vengono comunque immagazzinate per garantire la copertura del fabbisogno mondiale per un intero biennio. Aumentare in maniera esponenziale la richiesta per uso medico di questi medicinali, a livello mondiale, richiederebbe anni di formazione, modifiche negli ordinamenti giuridici e cambiamenti di mentalità nell'opinione pubblica che, invece, postulano tempo e grandi investimenti. Ma anche in presenza di un repentino e consistente innalzamento della domanda, l'enorme quantità di oppio prodotta in Afghanistan risulterebbe comunque esorbitante rispetto alle accennate necessità terapeutiche.

In secondo luogo, la "diversione" di quote ingenti di prodotto per uso medico verso i circuiti clandestini per la sintesi dell'eroina, se è purtroppo un rischio ineliminabile anche nei Paesi dotati di sistemi normativi, giudiziari e di polizia in grado di disciplinare con regole stringenti la produzione dell'oppio, potrebbe diventare un fenomeno incontrollabile in un contesto, come quello afgano, in cui in molte zone del Paese non esiste ancora un controllo effettivo del territorio. Ne sanno qualcosa gli iraniani, che combattono una durissima lotta contro l'esportazione dall'Afghanistan verso il loro Paese di sostanze stupefacenti. Come ci ha riferito la delegazione iraniana che abbiamo incontrato, due anni fa sono caduti 3.000 poliziotti proprio per contrastare l'esportazione dall'Afghanistan verso l'Iran di sostanze stupefacenti. Purtroppo l'Iran ha un grande problema di tossicodipendenza.

In terzo luogo, il prezzo pagato dalle aziende farmaceutiche non potrebbe in alcun modo competere con quello pagato dalle agguerrite organizzazioni criminali dedite al narcotraffico e alla produzione illecita di eroina. Ne conseguirebbe un'inevitabile involuzione dell'attività di coltivazione, solo apparentemente destinata a scopi medici, ma di fatto funzionale al mercato clandestino delle organizzazioni criminali.

Da ultimo, le tecniche di coltivazione in un Paese lacerato dai conflitti armati e privo di alcun sistema di valutazione e controllo, men che meno sulla qualità dei prodotti, porterebbero alla produzione di raccolti d'oppio caratterizzati dalla presenza massiccia di impurità, tossine generate dagli antiparassitari o dagli agenti fertilizzanti, tali da renderli inutilizzabili per il successivo impiego farmaceutico e non concorrenziali rispetto a quelli ottenuti in altri Paesi con modalità e procedure ben consolidate.

Quanto, infine, al cosiddetto "regime proibizionista", ricordo per l'ennesima volta che l'Italia è forse il Paese meno proibizionista del mondo. Non manco mai di ricordare ai giovani, specialmente nelle scuole, che se si recano in Cina e vengono colti con un grammo di hashish rischiano la pena capitale; se vanno a New York, negli Stati Uniti, vanno in galera; se vanno in vacanza a Malindi, in Kenya, rischiano di passare in carcere 20 o 30 anni solo per il possesso di sostanze stupefacenti.

Quando il presidente Obama afferma di voler liberalizzare, intende avvicinarsi progressivamente al sistema italiano, secondo il quale il semplice possesso e l'uso di sostanze stupefacenti non portano al carcere. Obama propone di distinguere il consumatore dallo spacciatore, esattamente come prevede la normativa italiana, la quale depenalizza totalmente il consumo personale di droga, ma mantiene (giustamente, essendo illecito drogarsi) sanzioni amministrative, come ad esempio il ritiro della patente di guida che fa risparmiare tragici incidenti stradali. Questo è solo uno degli effetti negativi della droga, ma ve ne sarebbero altri anche nell'imprenditoria, nel commercio e nella politica, inquinati dalla droga e da chi ne fa uso. È comunque sufficiente pensare agli incidenti stradali: è chiaro che un ordinamento non può permettere che guidino persone che abusano dell'alcool e sono ubriache né quelle che fanno uso di stupefacenti. Quindi, il ritiro della patente o del cicl
omoto
re o la sospensione del porto d'armi sono sanzioni amministrative che non sono da regime proibizionista, ma sono solo di salvaguardia dei diritti delle persone.

Il Governo italiano continuerà quindi a svolgere quest'attività, del resto in sintonia con tutti i Paesi del mondo. Sottolineo che in Italia ciò consente di ridurre l'entità del fenomeno, anche se questo è drammatico. Ricordo che il 98,5 per cento della popolazione non ha alcun problema di droga e, quindi, il fenomeno investe il restante 1,5 per cento. Altre sostanze pericolose, non quanto la droga, registrano un consumo da parte del 30-35 per cento della popolazione. Quindi, il meccanismo mondiale di controllo e repressione dello spaccio comporta almeno di ridurre significativamente la percentuale di coloro che cadono nel drammatico tunnel della droga.


PORETTI (PD). Domando di parlare.


PRESIDENTE. Ne ha facoltà.


PORETTI (PD). Signora Presidente, ringrazio comunque il sottosegretario Giovanardi per la risposta ed anche per la passione con la quale interviene sull'argomento. Mi augurerei comunque di non sentir più parlare nel 2010 di «tunnel della droga», perché credo davvero siano dei termini superati, così come «tossicodipendenti zombie». Credo si possa andare avanti, soprattutto se non si vuole avere un atteggiamento ideologico ed assumere invece un atteggiamento più pragmatico.

Signor Sottosegretario, quando lei ha parlato della prevenzione e della cura, tendendo quasi sempre a sostituire o a sovrapporre questi termini ad un altro termine, quello della riduzione del danno, lei in qualche modo ha dato il senso di un atteggiamento che io reputo ideologico. Quando sostiene che, comunque sia, la cronicizzazione è una condizione eticamente inaccettabile per questo Governo, il nodo di questo dibattito è un po' tutto lì: cos'è eticamente accettabile e cosa non lo è. Infatti, la cronicizzazione può essere data anche dalla somministrazione del metadone; mi sembra però che tra le varie offerte - dalla "Cristo-terapia" alle varie terapie che vengono somministrate nelle varie comunità o nei vari servizi di assistenza ai tossicodipendenti - ci sia anche il metadone. E allora, mi chiedo: perché l'eroina no? L'eroina comunque verrebbe fornita, lei ha detto, come un farmaco. Certo, come un farmaco, e sarebbe davvero molto diversa da quella droga e da quell
e
sostanz
e che invece circolano per strada.

Lei ha poi detto che comunque nei Paesi dove sono state fatte esperienze di questo tipo in realtà sarebbe bassa la percentuale della popolazione interessata, il 3 per cento. Intanto sarebbe un 3 per cento che in qualche modo potrebbe evitare l'assunzione di sostanze che poi diventano mortali; infatti, si muore di overdose non perché si assume dell'eroina ma perché quella sostanza è stata tagliata male o ha delle molecole tali che poi comportano la morte.

Lei dice anche che nell'arco di 4-6 mesi si abbandona questo tipo di soluzione, ma o ci cita davvero degli studi o altrimenti questa affermazione è molto generica, perché poi bisognerebbe cercare di capire che direzione prendono queste persone: abbandonano quel tipo di trattamento per fare che cosa? Per tornare sulla strada, oppure perché si indirizzano verso altre strade?

In merito al discorso più interessante, quello relativo all'oppio afgano e alla possibilità di utilizzarlo per la produzione di oppiacei, lei afferma che non c'è richiesta. Basti un dato: solo il 20 per cento della popolazione a livello mondiale utilizza l'80 per cento della produzione di oppiacei. Se allora anche l'altro 80 per cento riuscisse in qualche modo a utilizzarli crescerebbe sicuramente anche la domanda legale, e non quella reale, che oggi viene coperta. Lei dice inoltre che la concorrenza con il narcotraffico impedirebbe ad uno Stato di comprarlo al prezzo a cui viene rivenduto alla criminalità: certo, è proprio il proibizionismo che fa lievitare a dismisura il prezzo di una sostanza che, in realtà, è naturale.

Non ho assolutamente più tempo per replicare alla sua risposta, ma aggiungo: l'Italia è un eldorado in cui non c'è il proibizionismo? Sottosegretario Giovanardi, ma ha visto le carceri italiane? Sa per quali reati sono reclusi i detenuti delle carceri italiane? Metà della popolazione carceraria, che cresce a dismisura giorno dopo giorno, è detenuta per reati legati alla tossicodipendenza e al piccolo spaccio.

A questo riguardo, appaiono notizie e studi in base ai quali Torino è una delle città in cui i tossicodipendenti spendono di più per l'assunzione di queste sostanze: per lo più, in quella realtà preferiscono l'eroina e spendono 4.000 euro al mese. Ma come fa un tossicodipendente a spendere 4.000 euro al mese se non si inserisce lui stesso in un circuito di criminalità e di piccolo spaccio, per cui poi finisce in carcere? Stiamo parlando di questo, e non del fatto che se vengo trovata a fumare uno spinello non finisco in carcere.

Inoltre, per cortesia, citare la Cina o altri Paesi in cui rischierei anche la pena di morte non mi sembra proprio confacente all'esempio di altri Paesi e di uno Stato democratico come l'Italia.


Sen. Donatella Poretti - Parlamentare Radicali -Partito Democratico
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