mercoledì 25 marzo 2009

DOPO LA MORTE

L'INVISIBILE EVIDENTE OVVERO COM'E' NATA ALGORDANZA ITALIA

“No. Non è la bora che spazza il cielo dalle nuvole” disse Gabriele “le nuvole sono a migliaia di metri d’altezza e la bora soffia sì e no fino ai 400 metri. Il fenomeno del cielo pulito quando c’è bora è dovuto ad altre motivazioni". Gabriele era il più alto in grado dell’ufficio, procuratore speciale, ma era anche un esperto in meteorologia. Mario invece era il funzionario. Entrambi romani, avevano lavorato alla RAS di Milano per poi trasferirsi a Trieste, sempre in RAS ma alla direzione per l’estero. L’ufficio si chiamava UAG, Ufficio Assicurazioni di Gruppo. Al terzo piano del bellissimo palazzo di Piazza della Repubblica a Trieste. Era marzo del 1980. Fuori c’era una bella giornata anche se soffiava la bora. Stavo guardando dalla finestra mentre aspettavo che il computer stampasse dei tassi di sopravvivenza. Dall’altra stanza, Vivien, la nostra segretaria, aveva fatto una battutaccia ad alta voce, dicendo qualcosa contro i romani che vengono ad insegnare ai triestini cos’è la bora. Sorrisi. Del resto la giornata non lasciava presagire alcuna sorte avversa. Invece, ignaro, lavoravo duramente: stavo preparando il mio prossimo errore. Intorno alle 11 ricevetti una telefonata di mia madre. Strano, non mi chiamava mai al lavoro. Singhiozzava. A mala pena riuscivo a capire cosa mi diceva. Le avevano trovato un tumore in testa.

Non seppi dire niente. Solo ottuse parole di consolazione passeggera: “Vedrai che non è niente…”. Lei continuava a singhiozzare. Ed io: “non ti preoccupare… sicuramente non è come ti hanno detto”. Riattaccò. Le avevo parlato in spagnolo per non farmi capire dagli altri. Usavamo fare così a casa dato che io sono nato a Montevideo e, anche se i miei genitori erano italiani, tra di noi si parlava ancora in spagnolo. Comunque io dovevo essere sconvolto. Vivien mi chiese se avevo per caso visto un fantasma. Abbozzai un sorriso ancora. In realtà, cercai davvero di convincermi che non poteva essere niente. Come se queste cose non ti possano accadere. Il mio lavoro era quello di calcolare le probabilità di morire per fare i tassi assicurativi. Ma muoiono sempre gli altri. Mamma era ancora giovanissima, aveva appena compiuto 49 anni. Aveva tutti i capelli neri.

Da qualche tempo aveva giramenti di testa. Avevamo pensato fosse dovuto alla menopausa. Anche i medici che aveva consultato le dicevano che si trattava probabilmente di questo. I giramenti di testa si mescolavano alle vampate. I sintomi erano quelli. Nessun dubbio. Nessuna diagnosi differenziale. Tutto normale. Nessuna riflessione a più piani, nessun tracciato che rivestisse una volontà di voler scoprire quale fosse il problema reale. Per ogni problema complesso c’è sempre una soluzione semplice. Che è sbagliata.

Dopo un anno e più che si andava avanti con la storia delle vampate, una TAC scoprì la vera ragione dei giramenti di testa. Un tumore grosso come un pisello, ma cresciuto alla base del cervelletto. Una rogna gigante alla quale, ancora una volta, né io né mio fratello e tanto meno mio padre fummo in grado di prestare la giusta attenzione. Ci consolammo pensando che la piccola dimensione significava averlo scoperto in tempo. Ma non era così. Non si trattava di un tumore qualsiasi, un pisello estraneo messo nel cervello sarebbe stato molto meglio, ma che ne capivamo noi! Il cervelletto, invece, è una parte fondamentale del sistema nervoso centrale. Coordina le uscite motorie. Rappresenta il dieci percento del cervello ed è suddiviso in lobi, in fessure, in lamine, il tutto per aumentare la superficie cerebellare. Un pisello lì dentro è come un’albicocca nel cervello. Anzi, è peggio ancora.

Giovani medici, barboncini dal pensiero unico conformista, stavano tutti attorno al luminare come simpatico repertorio di una trasparenza resa opaca dal linguaggio tecnico incomprensibile: l’area paravermina, la fossa endocranica posteriore, gli emisferi cerebellari… Noi stavamo là, nella stanza di ospedale, cercando tra occhiate sbiadite e gelide luci al neon una traccia rasserenante. Che non c’era. Nelle loro facce smussate, si disegnavano solo sguardi di impermeabilità anfibia. Tuttavia ci sembrava ugualmente di poter intravvedere, alle volte, qualcosa di confortante. O almeno così volevamo credere. La speranza è l’ultima a morire ma alla fine muore come tutte le altre cose.

Io mi ero laureato due anni prima con la lode in Economia e Commercio. In qualche modo fungevo un po’ da intellettuale della famiglia. Mio fratello studiava ingegneria elettronica. Anche lui si sarebbe laureato con lode, l’unico del suo corso. Ma nonostante questa stupida cultura tecnica, nulla potemmo fare contro il destino: la morte aveva messo le sue uova a casa nostra. Mia madre non riuscì a vedere entrambi i suoi figli laureati. Morì il 20 dicembre del 1980. E morì in un modo che ancora oggi, a distanza di quasi trent’anni, mi appare incomprensibile, assurdo. Mi sembra incredibile di non essermi reso conto dell’immane tragedia che si stava abbattendo in casa nostra. Con quanta leggerezza pensavamo che dopo l’operazione tutto sarebbe tornato normale. Ridevamo e scherzavamo con lei sul fatto che la avrebbero rasata a zero, come un uovo. Ci illudevamo e facevamo castelli in aria sul suo ritorno a casa, il cane che l’aspettava. Ma si sa, i castelli in aria sono i più costosi da demolire.

La prima operazione non riuscì. Fu la peggiore. Il macellaio fece una strage. Ci andò dentro in modo brutale tagliando tutto per arrivare a quella maledetta cicerchia. Un macello. Io non lo sapevo ma ci sono chirurghi specialisti per ogni parte del corpo. Quelli che operano al cervello anche se sono competenti non devono necessariamente essere altrettanto capaci ad operare nel cervelletto. Anzi. Però noi eravamo ignari e ignoranti e ci fidammo del primario che usò mia madre come una cavia da laboratorio. Tralascio il calvario che seguì dopo. Una Via Crucis di dolore alla ricerca dello specialista ad hoc. Le varie operazioni che la resero sempre più debole. Il tempo che all’inizio sembrava scorrere lento, dispiegò tutta la sua potenza. Inesorabile e assoluto. Era come quando si gira una clessidra. All’inizio sembra che la sabbia non si muova. Invece è la dissoluzione di un impero. Verso la fine, gli ultimi granelli vanno via in un lampo. Come la vita. Quando finalmente trovammo la persona giusta, il primario giusto, quello che operava esattamente quel tipo di tumori in quella parte del corpo… fu troppo tardi. Mia madre morì prima dell’ennesimo tormento. Trent’anni e ancora oggi il ghiaccio della mia anima continua a sciogliersi in segreto. Come il primo giorno.

Dicono che ogni uomo ha un suo compito nella vita e non è mai quello che egli avrebbe voluto scegliersi. Forse è vero. L’essenziale è invisibile agli occhi. Me ne sono reso conto subito. Ma la cosa che più mi pesa è non aver potuto aiutarla. Chissà cosa pensava quando era sola? Tutte quelle lunghe notti. Perché non abbiamo mai parlato veramente invece di aggrapparci stupidamente all’idea vana che sarebbe andato tutto bene? L’errore più grande che si possa commettere è quello di non far niente perché si può fare troppo poco. In effetti, potevo fare poco e perciò non ho fatto niente. Così persi mia madre. Mi fu tolto un frammento di infinito. Porto ancora dentro la ferita di non aver potuto e saputo esserle vicino. Vorrei poterle dire quanto mi manca, vorrei parlare con lei. E a volte cercavo di farlo, quando andavo in quel luogo sgraziato che si chiama cimitero. Il posto meno appropriato del mondo per entrare in comunione con chi non c’è più.

Ero ormai avvezzo a trascinarmi questa pena infinita nell’anima quando, qualche anno fa, mentre tornavo in aereo dal Canada dove ora vive mio fratello, mi imbattei in una rivista che raccontava una vicenda che mi incuriosì molto. Vi era un’intervista ad una signora che parlava di suo marito morto qualche mese prima e che era sempre con lei. La signora parlava del diamante che si era appena fatta fare dalle ceneri di cremazione di suo marito e del colore azzurro che le ricordava tanto il colore dei suoi occhi. Da quel momento non feci altro che pensare a quella circostanza. Ma come era possibile? Un diamante dalle ceneri? In effetti lo era. E così cominciai a cercare di capire che cos’è un diamante, come si forma, cos’è il carbonio, perché si trova nelle ceneri di cremazione, ecc.

Quando finalmente ebbi l’occasione di imbattermi in Algordanza, non avevo dubbi. Dovevo, assolutamente dovevo avere mamma con me. Per sempre. Dovevo, assolutamente dovevo, dare l’occasione ad altri di avere vicino il proprio caro. Dovevo, assolutamente dovevo, lanciare il mio cuore e correre a raggiungerlo. E così ho fatto. Così è nata Algordanza Italia (http://www.algordanza.it).


Walter J. Mendizza