martedì 7 febbraio 2006

Le Partecipazioni statali viste da Giuseppe De Rita





 
    
Consiglio Nazionale delle Ricerche   Istituto per lo Studio dei Materiali  Nanostrutturati

Comunicato stampa

Le Partecipazioni statali viste da Giuseppe De Rita

Il fondatore del Censis racconta l'affascinante, e sconosciuta, vicenda delle Partecipazioni statali


PALERMO 7/02/2006 - «Dove stanno i Falck? E gli Olivetti? E i Pirelli, che resistono alla scalata di Teleccom? Dove sono? Dov'è De Benedetti? Chi ha portato Olivetti fuori dal listino? Dove sono questi grandi liberal che ci hanno garantito che sarebbe andata bene affidandoci al mercato?» si è chiesto il segretario generale del Censis Giuseppe De Rita al seminario «Marcello Carapezza» organizzato il 3 febbraio dal Cnr di Palermo e dedicato quest'anno alla vicenda delle Partecipazioni statali.

«Tutta la programmazione italiana -- ha continuato De Rita -- dal Piano Vanoni al Piano Giolitti fra il '54 e il '64 sono opera dell'Ufficio studi Iri e di noi dello Svimez. Era una grande capacità di creare classe dirigente».

«L'Iri era nato come un'elite di un gruppo fra i migliori intellettuali economisti. L'impegno che Saraceno voleva da noi era di mettersi insieme alle altre élites. Fare, ad esempio, rapporti stretti con l'ufficio studio dell'Eni: Giorgio Fuà, Giorgio Ruffolo, Paolo Sylos Labini e poi Savona e gli uomini di Carli.

«A un certo punto, invece, è scomparso tutto.

Il declino e la perdita dell'immagine
«Perché? Perché era iniziata la lottizzazione. Lo stesso Saraceno, che negli anni '60 aveva un potere enorme essendo l'unico che Moro ascoltava davvero, non è riuscito a convincerlo. I ministri delle Partecipazioni statali di fatto non erano ministri di niente.

«Ci fu una modifica della filosofia alla quale non siamo riusciti a sfuggire. Il grande gruppo polisettoriale integrato era figlio di una politica di opzione culturale che era quella dello Stato come soggetto generale di sviluppo. Sviluppo per una società che usciva dalla guerra senza soggetti perché l'Italia degli anni '50 e '60 era un'economia senza soggetti: dai trasporti alle telecomunicazioni non c'era nessuno.

«Oggi a produrre e a fare siamo pure in troppi. Ma allora non c'era nessun il mercato. Dov'era il mercato della siderurgia italiana? E quello delle telefonia?

«Quindi, nacque questa idea -- della quale anche io sono responsabile -- dello Stato che aveva il diritto-dovere di essere soggetto dello sviluppo indicando quali fossero le prospettive e il modo di perseguirle. E se fa la programmazione, lo Stato, allora può e deve anche intervenire nell'economia e nel Mezzogiorno. E si fa la Cassa per il Mezzogiorno.

«L'origine dello sfascio fu la corruzione politica. Non c'era più una una strategia comune e l'Iri divenne un impero con province autonome restando addirittura senza ispettorato. Ad esempio, mi mandarono me a fare un ispezione in Alfasud. Io quindi andai a Napoli da Cortesi che mi fece vedere tutti i plastici di questo mondo; mi fece fare il giro dello stabilimento; e pure, a 200 all'ora, il giro della pista di collaudo della fabbrica: 'Ora può andare. 'Come posso andare? Ma se non ho capito nulla? 'De Rita, mi hanno detto di fargliela vedere l'azienda. Non di fargliela capire. Se ne torni a Roma'.

«Iniziò il declino anche nell'immagine pubblica delle Partecipazioni statali. Non fu quindi solo l'accordo Andreatta-van Miert fra Stato e Commissione europea a far ridurre i fondi riconosciuti come aiuti di Stato; ma la stessa dimensione di un potere che non era più compatto.

«E lo sfascio di immagine fu così grande che quando hanno venduto, lo hanno fatto in modo straccione: la Stet è stata venduta 16mila miliardi. Colaninno 2 anni dopo l'ha pagata a debito 60mila miliardi; e 2 anni dopo lo stesso Colaninno ha rivenduto per fare la plusvalenza a Tronchetti a 120mila miliardi che, avendola comprata a debito, oggi sta con l'affanno perché può solo ripagare i debiti.

Le costruzioni e la fine di un potere compatto
«Un altro attore decisivo al crollo è stata l'entrata dell'Iri nel settore delle costruzioni. Fino ad allora lo Stato non aveva costruito direttamente.

«Probabilmente a Palermo lo capite subito come si opera nel settore delle costruzioni: questo lo paghiamo; poi lo vendiamo; poi lo affittiamo; e poi lo cartolarizziamo... Tutto questo meccanismo perverso nasce con la cultura non più monodirezionale: io costruttore pago il politico per il permesso e per quello che mi serve. Ma nasce invece l'intreccio permanente politico-costruttore.

«L'intreccio dei furbetti del quartierino è lo stesso intreccio, la stessa cosa. Politica e affari gestite con una spregiudicatezza ed un'autonomia che eliminano a monte la possibilità del controllo. Se questa estate non c'era Guido Rossi che prendeva il dossier Antonveneta e lo portava al suo amico Greco non scoppiava niente.

«E quando le cose diventano penali non si salva nessuno perché non c'è più tessuto sociale e di potere: ci sono solo alcuni gruppi che comandano e basta.

124mila milardi in marciapiedi e teatri...
«C'è tutto da ripensare. Recentemente, ho incontrato Nicola Rossi, l'economista che D'Alema si portò a Palazzo Chigi, che ha scritto un piccolo libro di grande spessore: l'ho letto e sono rimasto sconvolto e ora lo presentiamo insieme al Cnel.

«Dal 1998 al 2004 nel Mezzogiorno sono stati spesi 124mila mld di lire di cui 55mila come cifra straordinaria. La cifra è pari alla dotazione di 8 anni della Casmez ed è pari al 40% dei 40 anni di dotazione della Casmez. Ma dove stanno questi soldi? Nei teatri e nei rifacimenti dei marciapiedi?

«E guardate che in questi anni, una parte dei soldi è stata spesa dal Governo di centrosinistra e un'altra dal centrodestra. Il direttore generale era ed è lo stesso.

«Vi dicono, 'abbiamo imparato a spendere i soldi. Noi abbiamo speso tutti i soldi comunitari'...

«Ma se li avete buttati! Non si sa cosa ne avete fatto!

«Ritorniamo cioè ad una cultura arcaica dello sviluppo in cui lo Stato deve essere depredato e dare i soldi a sportello. Ma dare i soldi non è un modo degno di chiamare in causa lo Stato nello sviluppo.

«Guardo con un po' di sospetto a quelli come gli inglesi dell'Economist che mi vengono a dire che in Italia tutto è una schifezza e poi si comperano tutto a 2 lire. Certo, magari non come fece la Fiat che con lo 0.48% si era comprata la Telecom. Magari in modo più pulito: ma sul giornale, ieri, c'era l'elenco delle banche di affari estere che fanno la fila per fare affari in Italia.

«Noi rispondiamo con il finanziamento del country club in Abruzzo in cui, in altura, stanno a fare la terza buca. Stiamo ritornando ai primi anni della Casmez quando rispetto alle bonifiche e alle strade, vinceva il deputato che andava alla Cassa che si faceva finanziare l'asilo nido, la strada e l'ospedale.

«'Noi ci abbiamo la passeggiata a mare'. 'O il teatro romano'. E lo dico da profeta dello sviluppo dal basso con le piccole imprese che stanno crescendo come i fili d'erba del nuovo sviluppo. Tutti mi conoscono per questo. Quella motivazione che spinse Beneduce a fare l'Iri e la classe dirigente del dopoguerra non c'è più e bisogna dire con grande tranquillità che alcune cose devono essere studiate e riprese.

Ripensare le Partecipazioni statali
«Intervenire e non vedere il frutto. Perché è tutto disperso nel clientelismo e nel malaffare. Dicevo a Rossi che a quel punto è meglio ripensare le Partecipazioni statali e ad un governo delle risorse che non sia così demenziale. Altrimenti, chi lo fa lo sviluppo del Sud se non c'è una partecipazione pubblica significativa?

«Questo significa -- e qui esce fuori la mia cultura cattocomunista esce fuori -- che ad esempio nel mare, nel trasporto del cabotaggio e nella siderurgia sarebbe potuto uscire qualche soggetto che non è mai emerso. Mentre oggi proprio in questi settori lo Stato potrebbe esprimere questa soggettualità.

«Chi la fa la logistica con i porti e gli interporti? Chi la fa, la modernizzazione senza lo Stato? Se chiudono il Frejus o il Brennero l'economia di questo Paese salta. E che li fa i trafori, i privati? Chi ha quella cultura dell'innovazione che ha fatto grande il Paese fra il 1945 e il 1955 dei miei predecessori e poi fino al '63 e al primo Governo di centrosinistra?

«Bene il mercato. E poi? Davvero questo è un Paese che non ha bisogno di soggetti pubblici? 55mila mld di straordinario buttati in 6 anni?

«E poi? Che rapporto possono trovare con lo Stato gli emergenti come Della Valle o Moretti Polegato che cercano un rapporto? Davvero il "barchismo", come lo chiamo io, con lo sportello per gli imprenditori locali che fanno solo clientelismo è la risposta che gli sappiamo dare?

«Tutto sommato una storia della Partecipazioni statali potrebbe portare a una rivisitazione e ad una valorizzazione nuova della presenza dello Stato nell'economia. Alla Fondazione Iri hanno dato 250 mld di lire per raccontare la storia delle Partecipazioni Statali, che è una bella dotazione per una Fondazione. Ma loro non hanno speso una lira. La realtà economica che è stata la più significativa del dopoguerra italiano; quella che ha portato più frutti. E nessuno ne parla. Tutto scomparso nel nulla.

La Scuola di management nazionale
«L'Istituto italiano di management -- ha concluso De Rita -- era stato progettato e doveva essere la Scuola superiore della pubblica amministrazione nata con il governo Moro, ministro Giuseppe Medici. Si era già pensato alla Reggia di Caserta e a farci la Scuola. Lo dico perché ero nel comitato scientifico con Martinoli, il più grande esperto di organizzazione e management d'Italia.

Dopo 6 mesi di rottura di scatole ci dimettemmo perché i professori universitari di diritto costituzionale volevano essere i padroni; e ancora oggi in via Diaz a Roma presso la sede della Scuola ci sono loro. Nel '64-'65 la battaglia fra questi dodici professori e noi 2 amici del ministro finì male. La Scuola nazionale di management qui da noi non è possibile perché scatta automatico il corporativismo dei docenti di diritto.

Nel 1964 noi parlavamo di macroeconomia e loro dicevano: 'ma che è 'sta macroeconomia?' E questo quando il Banca d'Italia avevano già fatto il loro, di modello macroeconomico. Se volevamo fare i seminari andava bene, ma niente insegnamenti. In questo sono d'accordo con Giavazzi: le corporazioni nel nostro Paese sono invincibili».

Cartella stampa: Giuseppe De Rita al Seminario "Carapezza" <file:///C:/Documents and Settings/User/Documenti/Web/qualitas1998.net/stampa/cartella_stampa_de_rita_cnr.pdf>  (PDF)

Ulteriori informazioni:
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