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mercoledì 16 gennaio 2008

PAPA: discorso integrale non fatto alla Sapienza

Il testo integrale dell'allocuzione che il Papa avrebbe pronunciato alla Sapienza e la lettera del cardinale Bertone al rettore Guarini






E' stato da poco diffuso il testo del discorso che Benedetto XVI avrebbe dovuto tenere domani nel corso della visita all'Università di Roma La Sapienza, visita annullata ieri. Il testo è accompagnato da una lettera del card segretario di Stato Bertone al rettore dell'ateneo Renato Guarini in cui sono spiegati i motivi della rinuncia del Papa alla visita. "E' stato giudicato opportuno soprassedere alla visita – spiega il card. Bertone - per togliere ogni pretesto a manifestazioni che si sarebbero rivelate incresciose per tutti". Ma torniamo al discorso del Papa; ve ne diamo una prima sintesi in questo servizio di Francesca Sabatinelli.

Ma ecco il testo integrale dell'allocuzione di Benedetto XVI .
Magnifico Rettore,
Autorità politiche e civili,
Illustri docenti e personale tecnico amministrativo,
cari giovani studenti!

 
È per me motivo di profonda gioia incontrare la comunità della "Sapienza - Università di
Roma" in occasione della inaugurazione dell'anno accademico. Da secoli ormai questa
Università segna il cammino e la vita della città di Roma, facendo fruttare le migliori energie
intellettuali in ogni campo del sapere. Sia nel tempo in cui, dopo la fondazione voluta dal Papa
Bonifacio VIII, l'istituzione era alle dirette dipendenze dell'Autorità ecclesiastica, sia
successivamente quando lo Studium Urbis si è sviluppato come istituzione dello Stato italiano,
la vostra comunità accademica ha conservato un grande livello scientifico e culturale, che la
colloca tra le più prestigiose università del mondo. Da sempre la Chiesa di Roma guarda con
simpatia e ammirazione a questo centro universitario, riconoscendone l'impegno, talvolta arduo
e faticoso, della ricerca e della formazione delle nuove generazioni. Non sono mancati in questi
ultimi anni momenti significativi di collaborazione e di dialogo. Vorrei ricordare, in particolare,
l'Incontro mondiale dei Rettori in occasione del Giubileo delle Università, che ha visto la vostra
comunità farsi carico non solo dell'accoglienza e dell'organizzazione, ma soprattutto della
profetica e complessa proposta della elaborazione di un "nuovo umanesimo per il terzo
millennio".

 
Mi è caro, in questa circostanza, esprimere la mia gratitudine per l'invito che mi è stato
rivolto a venire nella vostra università per tenervi una lezione. In questa prospettiva mi sono
posto innanzitutto la domanda: Che cosa può e deve dire un Papa in un'occasione come questa?
Nella mia lezione a Ratisbona ho parlato, sì, da Papa, ma soprattutto ho parlato nella veste del
già professore di quella mia università, cercando di collegare ricordi ed attualità. Nell'università
"Sapienza", l'antica università di Roma, però, sono invitato proprio come Vescovo di Roma, e
perciò debbo parlare come tale. Certo, la "Sapienza" era un tempo l'università del Papa, ma oggi
è un'università laica con quell'autonomia che, in base al suo stesso concetto fondativo, ha fatto
sempre parte della natura di università, la quale deve essere legata esclusivamente all'autorità
della verità. Nella sua libertà da autorità politiche ed ecclesiastiche l'università trova la sua
funzione particolare, proprio anche per la società moderna, che ha bisogno di un'istituzione del
genere.

 
Ritorno alla mia domanda di partenza: Che cosa può e deve dire il Papa nell'incontro con
l'università della sua città? Riflettendo su questo interrogativo, mi è sembrato che esso ne
includesse due altri, la cui chiarificazione dovrebbe condurre da sé alla risposta. Bisogna, infatti,
chiedersi: Qual è la natura e la missione del Papato? E ancora: Qual è la natura e la missione
dell'università? Non vorrei in questa sede trattenere Voi e me in lunghe disquisizioni sulla natura
del Papato. Basti un breve accenno. Il Papa è anzitutto Vescovo di Roma e come tale, in virtù
della successione all'Apostolo Pietro, ha una responsabilità episcopale nei riguardi dell'intera
Chiesa cattolica. La parola "vescovo"–episkopos, che nel suo significato immediato rimanda a
"sorvegliante", già nel Nuovo Testamento è stata fusa insieme con il concetto biblico di Pastore:
egli è colui che, da un punto di osservazione sopraelevato, guarda all'insieme, prendendosi cura
del giusto cammino e della coesione dell'insieme. In questo senso, tale designazione del compito
orienta lo sguardo anzitutto verso l'interno della comunità credente. Il Vescovo – il Pastore – è
l'uomo che si prende cura di questa comunità; colui che la conserva unita mantenendola sulla
via verso Dio, indicata secondo la fede cristiana da Gesù – e non soltanto indicata: Egli stesso
è per noi la via. Ma questa comunità della quale il Vescovo si prende cura – grande o piccola che
sia – vive nel mondo; le sue condizioni, il suo cammino, il suo esempio e la sua parola
influiscono inevitabilmente su tutto il resto della comunità umana nel suo insieme. Quanto più
grande essa è, tanto più le sue buone condizioni o il suo eventuale degrado si ripercuoteranno
sull'insieme dell'umanità. Vediamo oggi con molta chiarezza, come le condizioni delle religioni
e come la situazione della Chiesa – le sue crisi e i suoi rinnovamenti – agiscano sull'insieme
dell'umanità. Così il Papa, proprio come Pastore della sua comunità, è diventato sempre di più
anche una voce della ragione etica dell'umanità.

 
Qui, però, emerge subito l'obiezione, secondo cui il Papa, di fatto, non parlerebbe veramente
in base alla ragione etica, ma trarrebbe i suoi giudizi dalla fede e per questo non potrebbe
pretendere una loro validità per quanti non condividono questa fede. Dovremo ancora ritornare
su questo argomento, perché si pone qui la questione assolutamente fondamentale: Che cosa è
la ragione? Come può un'affermazione – soprattutto una norma morale – dimostrarsi
"ragionevole"? A questo punto vorrei per il momento solo brevemente rilevare che John Rawls,
pur negando a dottrine religiose comprensive il carattere della ragione "pubblica", vede tuttavia
nella loro ragione "non pubblica" almeno una ragione che non potrebbe, nel nome di una
razionalità secolaristicamente indurita, essere semplicemente disconosciuta a coloro che la
sostengono. Egli vede un criterio di questa ragionevolezza fra l'altro nel fatto che simili dottrine
derivano da una tradizione responsabile e motivata, in cui nel corso di lunghi tempi sono state
sviluppate argomentazioni sufficientemente buone a sostegno della relativa dottrina. In questa
affermazione mi sembra importante il riconoscimento che l'esperienza e la dimostrazione nel
corso di generazioni, il fondo storico dell'umana sapienza, sono anche un segno della sua
ragionevolezza e del suo perdurante significato. Di fronte ad una ragione a-storica che cerca di
autocostruirsi soltanto in una razionalità a-storica, la sapienza dell'umanità come tale – la
sapienza delle grandi tradizioni religiose – è da valorizzare come realtà che non si può
impunemente gettare nel cestino della storia delle idee.

 
Ritorniamo alla domanda di partenza. Il Papa parla come rappresentante di una comunità
credente, nella quale durante i secoli della sua esistenza è maturata una determinata sapienza
della vita; parla come rappresentante di una comunità che custodisce in sé un tesoro di
conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l'intera umanità: in questo senso
parla come rappresentante di una ragione etica.

 
Ma ora ci si deve chiedere: E che cosa è l'università? Qual è il suo compito? È una domanda
gigantesca alla quale, ancora una volta, posso cercare di rispondere soltanto in stile quasi
telegrafico con qualche osservazione. Penso si possa dire che la vera, intima origine
dell'università stia nella brama di conoscenza che è propria dell'uomo. Egli vuol sapere che cosa
sia tutto ciò che lo circonda. Vuole verità. In questo senso si può vedere l'interrogarsi di Socrate
come l'impulso dal quale è nata l'università occidentale. Penso ad esempio – per menzionare
soltanto un testo – alla disputa con Eutifrone, che di fronte a Socrate difende la religione mitica
e la sua devozione. A ciò Socrate contrappone la domanda: "Tu credi che fra gli dei esistano
realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti … Dobbiamo, Eutifrone,
effettivamente dire che tutto ciò è vero?" (6 b – c). In questa domanda apparentemente poco
devota – che, però, in Socrate derivava da una religiosità più profonda e più pura, dalla ricerca
del Dio veramente divino – i cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro
cammino. Hanno accolto la loro fede non in modo positivista, o come la via d'uscita da desideri
non appagati; l'hanno compresa come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica
per far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione creatrice e al contempo Ragione-Amore.
Per questo, l'interrogarsi della ragione sul Dio più grande come anche sulla vera natura e sul
vero senso dell'essere umano era per loro non una forma problematica di mancanza di religiosità,
ma faceva parte dell'essenza del loro modo di essere religiosi. Non avevano bisogno, quindi, di
sciogliere o accantonare l'interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e
riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la
conoscenza della verità intera. Poteva, anzi doveva così, nell'ambito della fede cristiana, nel
mondo cristiano, nascere l'università.

 
È necessario fare un ulteriore passo. L'uomo vuole conoscere – vuole verità. Verità è
innanzitutto una cosa del vedere, del comprendere, della theoría, come la chiama la tradizione
greca. Ma la verità non è mai soltanto teorica. Agostino, nel porre una correlazione tra le
Beatitudini del Discorso della Montagna e i doni dello Spirito menzionati in Isaia 11, ha
affermato una reciprocità tra "scientia" e "tristitia": il semplice sapere, dice, rende tristi. E di
fatto – chi vede e apprende soltanto tutto ciò che avviene nel mondo, finisce per diventare triste.
Ma verità significa di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza
del bene. Questo è anche il senso dell'interrogarsi socratico: Qual è quel bene che ci rende veri?
La verità ci rende buoni, e la bontà è vera: è questo l'ottimismo che vive nella fede cristiana,
perché ad essa è stata concessa la visione del Logos, della Ragione creatrice che, nell'incarnazione di Dio, si è rivelata insieme come il Bene, come la Bontà stessa.
Nella teologia medievale c'è stata una disputa approfondita sul rapporto tra teoria e prassi,
sulla giusta relazione tra conoscere ed agire – una disputa che qui non dobbiamo sviluppare. Di
fatto l'università medievale con le sue quattro Facoltà presenta questa correlazione. Cominciamo
con la Facoltà che, secondo la comprensione di allora, era la quarta, quella di medicina. Anche
se era considerata più come "arte" che non come scienza, tuttavia, il suo inserimento nel cosmo
dell'universitas significava chiaramente che era collocata nell'ambito della razionalità, che l'arte
del guarire stava sotto la guida della ragione e veniva sottratta all'ambito della magia. Guarire
è un compito che richiede sempre più della semplice ragione, ma proprio per questo ha bisogno
della connessione tra sapere e potere, ha bisogno di appartenere alla sfera della ratio.
Inevitabilmente appare la questione della relazione tra prassi e teoria, tra conoscenza ed agire
nella Facoltà di giurisprudenza. Si tratta del dare giusta forma alla libertà umana che è sempre
libertà nella comunione reciproca: il diritto è il presupposto della libertà, non il suo antagonista.
Ma qui emerge subito la domanda: Come s'individuano i criteri di giustizia che rendono
possibile una libertà vissuta insieme e servono all'essere buono dell'uomo? A questo punto
s'impone un salto nel presente: è la questione del come possa essere trovata una normativa
giuridica che costituisca un ordinamento della libertà, della dignità umana e dei diritti dell'uomo.
È la questione che ci occupa oggi nei processi democratici di formazione dell'opinione e che al
contempo ci angustia come questione per il futuro dell'umanità. Jürgen Habermas esprime, a mio
 parere, un vasto consenso del pensiero attuale, quando dice che la legittimità di una carta
costituzionale, quale presupposto della legalità, deriverebbe da due fonti: dalla partecipazione
politica egualitaria di tutti i cittadini e dalla forma ragionevole in cui i contrasti politici vengono
risolti. Riguardo a questa "forma ragionevole" egli annota che essa non può essere solo una lotta
per maggioranze aritmetiche, ma che deve caratterizzarsi come un "processo di argomentazione
sensibile alla verità" (wahrheitssensibles Argumentationsverfahren). È detto bene, ma è cosa
molto difficile da trasformare in una prassi politica. I rappresentanti di quel pubblico "processo
di argomentazione" sono – lo sappiamo – prevalentemente i partiti come responsabili della
formazione della volontà politica. Di fatto, essi avranno immancabilmente di mira soprattutto
il conseguimento di maggioranze e con ciò baderanno quasi inevitabilmente ad interessi che
promettono di soddisfare; tali interessi però sono spesso particolari e non servono veramente
all'insieme. La sensibilità per la verità sempre di nuovo viene sopraffatta dalla sensibilità per gli
interessi. Io trovo significativo il fatto che Habermas parli della sensibilità per la verità come di
elemento necessario nel processo di argomentazione politica, reinserendo così il concetto di
verità nel dibattito filosofico ed in quello politico.

 
Ma allora diventa inevitabile la domanda di Pilato: Che cos'è la verità? E come la si
riconosce? Se per questo si rimanda alla "ragione pubblica", come fa Rawls, segue necessariamente ancora la domanda: Che cosa è ragionevole? Come una ragione si dimostra ragione vera?

 
In ogni caso, si rende in base a ciò evidente che, nella ricerca del diritto della libertà, della verità
della giusta convivenza devono essere ascoltate istanze diverse rispetto a partiti e gruppi
d'interesse, senza con ciò voler minimamente contestare la loro importanza. Torniamo così alla
struttura dell'università medievale. Accanto a quella di giurisprudenza c'erano le Facoltà di
filosofia e di teologia, a cui era affidata la ricerca sull'essere uomo nella sua totalità e con ciò
il compito di tener desta la sensibilità per la verità. Si potrebbe dire addirittura che questo è il
senso permanente e vero di ambedue le Facoltà: essere custodi della sensibilità per la verità, non
permettere che l'uomo sia distolto dalla ricerca della verità. Ma come possono esse corrispondere
a questo compito? Questa è una domanda per la quale bisogna sempre di nuovo affaticarsi e che
non è mai posta e risolta definitivamente. Così, a questo punto, neppure io posso offrire
propriamente una risposta, ma piuttosto un invito a restare in cammino con questa domanda –
in cammino con i grandi che lungo tutta la storia hanno lottato e cercato, con le loro risposte e
con la loro inquietudine per la verità, che rimanda continuamente al di là di ogni singola risposta.
Teologia e filosofia formano in ciò una peculiare coppia di gemelli, nella quale nessuna delle
due può essere distaccata totalmente dall'altra e, tuttavia, ciascuna deve conservare il proprio
compito e la propria identità. È merito storico di san Tommaso d'Aquino – di fronte alla
differente risposta dei Padri a causa del loro contesto storico – di aver messo in luce l'autonomia
della filosofia e con essa il diritto e la responsabilità propri della ragione che s'interroga in base
alle sue forze. Differenziandosi dalle filosofie neoplatoniche, in cui religione e filosofia erano
inseparabilmente intrecciate, i Padri avevano presentato la fede cristiana come la vera filosofia,
sottolineando anche che questa fede corrisponde alle esigenze della ragione in ricerca della
verità; che la fede è il "sì" alla verità, rispetto alle religioni mitiche diventate semplice
consuetudine. Ma poi, al momento della nascita dell'università, in Occidente non esistevano più
quelle religioni, ma solo il cristianesimo, e così bisognava sottolineare in modo nuovo la
responsabilità propria della ragione, che non viene assorbita dalla fede. Tommaso si trovò ad
agire in un momento privilegiato: per la prima volta gli scritti filosofici di Aristotele erano
accessibili nella loro integralità; erano presenti le filosofie ebraiche ed arabe, come specifiche
appropriazioni e prosecuzioni della filosofia greca. Così il cristianesimo, in un nuovo dialogo
con la ragione degli altri, che veniva incontrando, dovette lottare per la propria ragionevolezza.
La Facoltà di filosofia che, come cosiddetta "Facoltà degli artisti", fino a quel momento era stata
solo propedeutica alla teologia, divenne ora una Facoltà vera e propria, un partner autonomo
della teologia e della fede in questa riflessa. Non possiamo qui soffermarci sull'avvincente
confronto che ne derivò. Io direi che l'idea di san Tommaso circa il rapporto tra filosofia e
teologia potrebbe essere espressa nella formula trovata dal Concilio di Calcedonia per la
cristologia: filosofia e teologia devono rapportarsi tra loro "senza confusione e senza
separazione". "Senza confusione" vuol dire che ognuna delle due deve conservare la propria
identità. La filosofia deve rimanere veramente una ricerca della ragione nella propria libertà e
nella propria responsabilità; deve vedere i suoi limiti e proprio così anche la sua grandezza e
vastità. La teologia deve continuare ad attingere ad un tesoro di conoscenza che non ha inventato
essa stessa, che sempre la supera e che, non essendo mai totalmente esauribile mediante la
riflessione, proprio per questo avvia sempre di nuovo il pensiero. Insieme al "senza confusione"
vige anche il "senza separazione": la filosofia non ricomincia ogni volta dal punto zero del
soggetto pensante in modo isolato, ma sta nel grande dialogo della sapienza storica, che essa
criticamente e insieme docilmente sempre di nuovo accoglie e sviluppa; ma non deve neppure
chiudersi davanti a ciò che le religioni ed in particolare la fede cristiana hanno ricevuto e donato
all'umanità come indicazione del cammino. Varie cose dette da teologi nel corso della storia o
anche tradotte nella pratica dalle autorità ecclesiali, sono state dimostrate false dalla storia e oggi
ci confondono. Ma allo stesso tempo è vero che la storia dei santi, la storia dell'umanesimo
cresciuto sulla basa della fede cristiana dimostra la verità di questa fede nel suo nucleo
essenziale, rendendola con ciò anche un'istanza per la ragione pubblica. Certo, molto di ciò che
dicono la teologia e la fede può essere fatto proprio soltanto all'interno della fede e quindi non
può presentarsi come esigenza per coloro ai quali questa fede rimane inaccessibile. È vero, però,
al contempo che il messaggio della fede cristiana non è mai soltanto una "comprehensive
religious doctrine" nel senso di Rawls, ma una forza purificatrice per la ragione stessa, che aiuta
ad essere più se stessa. Il messaggio cristiano, in base alla sua origine, dovrebbe essere sempre
un incoraggiamento verso la verità e così una forza contro la pressione del potere e degli
interessi.

 
Ebbene, finora ho solo parlato dell'università medievale, cercando tuttavia di lasciar
trasparire la natura permanente dell'università e del suo compito. Nei tempi moderni si sono
dischiuse nuove dimensioni del sapere, che nell'università sono valorizzate soprattutto in due
grandi ambiti: innanzitutto nelle scienze naturali, che si sono sviluppate sulla base della
connessione di sperimentazione e di presupposta razionalità della materia; in secondo luogo,
nelle scienze storiche e umanistiche, in cui l'uomo, scrutando lo specchio della sua storia e
chiarendo le dimensioni della sua natura, cerca di comprendere meglio se stesso. In questo
sviluppo si è aperta all'umanità non solo una misura immensa di sapere e di potere; sono
cresciuti anche la conoscenza e il riconoscimento dei diritti e della dignità dell'uomo, e di questo
possiamo solo essere grati. Ma il cammino dell'uomo non può mai dirsi completato e il pericolo
della caduta nella disumanità non è mai semplicemente scongiurato: come lo vediamo nel
panorama della storia attuale! Il pericolo del mondo occidentale – per parlare solo di questo –
è oggi che l'uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda
davanti alla questione della verità. E ciò significa allo stesso tempo che la ragione, alla fine, si
piega davanti alla pressione degli interessi e all'attrattiva dell'utilità, costretta a riconoscerla
come criterio ultimo. Detto dal punto di vista della struttura dell'università: esiste il pericolo che
la filosofia, non sentendosi più capace del suo vero compito, si degradi in positivismo; che la
teologia col suo messaggio rivolto alla ragione, venga confinata nella sfera privata di un gruppo
più o meno grande. Se però la ragione – sollecita della sua presunta purezza – diventa sorda al
grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola. Applicato alla nostra cultura europea ciò significa:
se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al
momento la convince e – preoccupata della sua laicità – si distacca dalle radici delle quali vive,
allora non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma.

 
Con ciò ritorno al punto di partenza. Che cosa ha da fare o da dire il Papa nell'università?
Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo
donata in libertà. Al di là del suo ministero di Pastore nella Chiesa e in base alla natura intrinseca
di questo ministero pastorale è suo compito mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare
sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo
cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire
così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro.


Ed ecco il testo della lettera che il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone ha inviato al rettore de La Sapienza Renato Guarini:

Magnifico Rettore,

 
il Santo Padre aveva accolto volentieri l'invito da Lei rivoltoGli di compiere una visita a
codesta Università degli Studi "La Sapienza", per offrire anche in questo modo un segno
dell'affetto e dell'alta considerazione che Egli nutre verso codesta illustre Istituzione, che ebbe
origine secoli or sono per volontà di un Suo venerato Predecessore.
Essendo purtroppo venuti meno, per iniziativa di un gruppo decisamente minoritario di
Professori e di alunni, i presupposti per un'accoglienza dignitosa e tranquilla, è stato giudicato
opportuno soprassedere alla prevista visita per togliere ogni pretesto a manifestazioni che si
sarebbero rivelate incresciose per tutti. Nella consapevolezza tuttavia del desiderio sincero
coltivato dalla grande maggioranza di Professori e studenti di una parola culturalmente
significativa, da cui trarre indicazioni stimolanti nel personale cammino di ricerca della verità,
il Santo Padre ha disposto che Le sia inviato il testo da Lui personalmente preparato per
l'occasione. Mi faccio volentieri tramite della Superiore decisione, allegandoLe il discorso in
parola, con l'auspicio che in esso tutti possano trovare spunti per arricchenti riflessioni ed
approfondimenti.
Colgo volentieri l'occasione per porgerLe, con sensi di profonda deferenza, cordiali saluti.


origine: http://www.oecumene.radiovaticana.org/IT1/Articolo.asp?c=180442

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